Data : 14/09/2014 – 15/09/2014
Curiosità:
Il Monte Thabor (3.178 m s.l.m. – detto anche monte Tabor) è una montagna delle Alpi Cozie. La montagna è in territorio francese dal 1947 ed è situata tra il comune di Valmeinier a sud-ovest di Modane, nel dipartimento della Savoia ed il comune di Névache nel dipartimento delle Alte Alpi.
Accesso:Da Bardonecchia si seguono le indicazioni per Melezet e Colle della Scala, arrivando a Pian del Colle, dove in corrispondenza del primo tornante per il Colle della Scala, si prosegue dritti sulla strada sterrata della Valle Stretta, fino ai tornanti che precedono le Grange di Valle Stretta ed i rifugi, qui si parcheggia l’auto.
Ne abbiamo parlato a lungo, è stata la sfida per settimane, mesi ormai. Chi ci sarebbe arrivato per primo, quanto ci sarebbe voluto, se ci sarebbero state defezioni lungo la salita. Insomma, LA sfida dell’estate. Il primo vero 3.000 metri. E allora, dopo un primo giro in avanscoperta al rifugio, totalmente fuori strada, ci son voluti solo sei giorni per partire alla volta del Thabor.
Reclutiamo un compagno reduce da un infortunio calcistico, e già sappiamo che non arriverà su con noi, è venuto per la passeggiata iniziale. Tutto il resto del gruppo si astiene, e noi ne approfittiamo per fare le cose in grande: tenda e zaino pieno, l’obiettivo è chiudere l’anello che sale al Thabor dalla Valle Stretta, tocca il lago Peyron scendendo per risalire al rifugio del Thabor e poi riscende sul lato opposto della valle. Ancora non ci rendiamo conto di cosa ci aspetta.
Partiamo per la strada che già una volta ci aveva portato al Lago Lavoir, deviando poco dopo il rifugio Des Chamois. La giornata è meravigliosa, perfetta -per nostra fortuna- per il nostro programma ambizioso.
Eleggiamo sponsor ufficiale dell’avventura l’Accademia Torino, e partiamo. Raggiungere la prima tappa è semplice e gli zaini pieni sembrano leggeri. L’aria fresca autunnale e la partenza -una volta tanto- di primo mattino, ci risparmiano il caldo; l’assenza di vento ci renderà tutto più facile.
Superata la prima tappa, percorriamo ancora un piccolo pezzo di un sentiero conosciuto, ma svoltiamo quasi subito seguendo le indicazioni per la vetta. Il sentiero che si apre davanti a noi è nuovo, per noi almeno, e disseminato di pascoli. Abbastanza pianeggiante, ci regala una mattinata lunga, ma dal passo veloce e non troppo faticoso. Le fermate a scopo fotografico sono parecchie ma non ci rallentano troppo, e qualcuno ne approfitta anche per fotografare qualche incontro ravvicinato.
Arrivati al bivio che segna il vero inizio della scalata alla vetta, le gambe sono ormai calde e ne approfittiamo per una piccola sosta. La sveglia presto ci ha fatti arrivare a metà strada giusto per l’ora di pranzo, e dopo il dolcetto a base di frutta secca salutiamo il nostro amico -no, non la mucca, il calciatore azzoppato. Le mucche le portiamo con noi quasi fino alla cima. Si riparte, il tempo a nostra disposizione ancora abbastanza lungo, e senza fretta cominciamo a salire seriamente sulla strada ghiaiosa e tutta curve a gomito. La nostra meta non è più visibile, almeno non all’inizio, ma sappiamo di avere davanti a noi tre tappe, le tre croci; due durante il percorso, i due colli da superare, e una, ancora lontanissima, lassù, quella della chiesetta in cima al Thabor.
La salita è dura, il sentiero impossibile da perdere ma decisamente faticoso. Lo zaino diventa un peso non indifferente e la tentazione di abbandonarlo lungo la strada per raccoglierlo sulla via del ritorno è forte, molto molto forte -almeno per me, il fotografo deve esser stato incrociato con uno stambecco da bambino!-. La seconda croce è un miraggio, la vedo dal basso, quasi irraggiungibile. Quando finalmente mi ci avvicino, lo spettacolo che mi trovo davanti è tanto meraviglioso quanto inquietante: trovarsi faccia a faccia con quanto ancora manca della salita è uno shock, ma si va avanti comunque, con difficoltà, ma si va!
Raggiungere la vetta, soprattutto grazie l’ultima salita, è devastante. Mai, e ripeto mai, andar lassù zavorrati -suscitiamo anche l’ammirazione di un alpino- con tenda e quant’altro: lasciate tutto giù perchè ogni chilo che vi portate dietro si farà sentire, eccome.
Ma gli insegnamenti di una vita di judo sono utili -non si molla mai, fino all’ultimo secondo…centimetro in questo caso- e si arriva su, sia l’uomo-camoscio una buona mezz’ora prima di me, che io ed il mio zaino. La soddisfazione è tanta, è il primo 3.000 metri della stagione, di sempre a dir la verità. Ci vuole un attimo per riprendersi, un goccio d’acqua e qualcosa da mangiare, ma poi è tutto pronto per godersi lo spettacolo: 360 gradi di meraviglia.
Non c’è nulla ad ostacolare la vista che ci circonda, raggiungiamo la croce che segna il punto più alto raggiungibile -la vera vetta è in realtà più alta, ma si tratta di uno spuntone raggiungibile solo arrampicando, o forse neanche così. Siamo, finalmente, in cima al Monte Thabor, tempo di salita non pervenuto, ma poco importa.
Ci prendiamo tutto il tempo necessario per goderci il meritatissimo spettacolo. Si aprono anche dispute sui nomi delle varie vette visibili, per certo il Monviso, inconfondibile, e parrebbe anche i comprensori sciistici del Monginevro e de La Grave-La Meije, ma la nostra cartina non è sufficientemente ampia per verificarlo, ci piace pensarla così.
Troviamo diverse persone quassù, molti stranieri e non solo francesi, ed un simpatico solitario ragazzo italiano amante delle montagne. I discorsi a questa quota e con questa vista hanno tutti un argomento comune: Montagna, panorama, scalate…ovviamente non si può parlare d’altro. E così eccoci ad ammirare la Valle Stretta, da cui arriviamo
e la Val Frejus e la Francia, col nostro amico intento ad godersi lo spettacolo emozionante che la giornata tersa e limpida offre.
“Il paradiso è sotto i nostri piedi e sopra le nostre teste”
Henry David Thoreau
C’è tempo addirittura per un piccolo sonnellino -l’assenza di vento è tanto rara quanto piacevole e ci permette di rimanere in cima senza fretta né gelo.
E poi ancora montagne e montagne, con i pascoli in basso punteggiati di bianco -le mucche da quassù son piccole piccole, come formichine sbiancate!.
E poi, ad un certo punto, ci accorgiamo di esser soli. E’ incredibile, il silenzio è totale e neanche lontanamente paragonabile a quello che crediamo di avere in città. E’ totale assenza di rumore, anche i corvi, unici abitanti della vetta, non si osano ad infrangere il silenzio. E’ magico, davvero, e si potrebbe rimaner qui per giorni a contemplare e respirare l’aria fresca e frizzante che c’è qui.
Trovare la voglia di ripartire non è facile, lo zaino è più pesante nonostante davanti a noi ci sia la discesa: abbiamo sulle spalle il peso di lasciare questo posto meraviglioso. Ma un ultimo momento per lasciare il nostro ricordo non manca, e nel freddo buio della chiesetta lasciamo il ricordo del nostro passaggio, tra i tanti che son passati di qui, tutti speciali per esser riusciti a salire fino alla cima.
“Si va in montagna per essere liberi, per scuotersi dalle spalle tutte le catene che la convivenza sociale impone, per non inciampare ogni due passi in imposizioni e proibizioni. Si va in montagna anche per sottrarsi a norme ammuffite, per sbizzarrirsi una buona volta e immagazzinare nuove energie.”
Tita Piaz
Il Thabor è stato conquistato. O forse lui ha conquistato noi, molto più probabile. (Raccontato in Thabor: silenzio a 3.000 metri – PARTE 1)
“Quando si affronta la montagna, è importante amarla. E per tornare vivo è importante essere amato dalla montagna.”
Jirō Taniguchi
Uno spettacolo mozzafiato, ma dobbiamo tornare giù. Ci godiamo gli ultimi momenti da soli in cima, noi, qualche corvo ed il silenzio più totale, e poi via, zaino in spalla e si comincia a tornar giù. La strada scorre veloce sotto i nostri piedi, sappiamo che non sarà una brevissima passeggiata e speriamo di arrivare in tempo al rifugio per la cena, anche se non siamo sicuri che avranno posto per noi.
Ci si ferma solo per qualche breve istante, una foto ricordo prima di svoltare e perder di vista la cima. Nonostante il sole sia ancora alto, il pomeriggio porta un’arietta fresca che rende più facile la discesa.
Al bivio dove stamattina abbiamo lasciato il nostro amico, svoltiamo sul sentiero che ci porterà prima al lago Peyron e solo dopo al rifugio del Thabor, che è ora la nostra nuova meta. Il paesaggio è fantastico, come d’altronde sempre in questa meravigliosa vallata, e un po’ il nostro passo, rallentato dalla fatica accumulata stamattina, un po’ le ombre che si allungano veloci, non ci permettono di ammirare il lago Peyron nel massimo del suo splendore, con il suo azzurro sfavillante.
Riusciamo ad intravederne solo un piccolo spicchio prima che l’ombra lo ingrigisca del tutto, ma basta questo per farci ripromettere di tornare per goderci lo spettacolo.
E poi dopo ancora prati, pascoli e verde. Su e giù per innumerevoli piccoli colli e collinette, prima la veloce e ripida discesa verso il lago, poi la lunga strada verso il Colle della Valle Stretta, dove sappiamo che ci aspetta un piccolo laghetto e la croce a segnalare il passo.
La giornata, che ben prometteva fin dall’inizio, ci regala fino all’ultimo raggio di sole i colori accesi della montagna: immersi in mille sfumature di verde, dove le marmotte corrono veloci e fischiano la nostra presenza, sopra di noi il cielo azzurro e terso e solo nel tardo pomeriggio qualche nuvola comincia a farsi avanti.
Ci godiamo il sentiero pianeggiante che ci riporta verso il colle, sapendo che ci aspetta un’ultima fatica prima di arrivare e, finalmente, riposarci. La montagna sa essere veramente dura, e a questo punto cominciamo a capire cosa voglia dire andarsene in giro con tutte le comodità nello zaino: tanti, tanti chili in più che diventano ad ogni passo più pesanti. Il pensiero di accendere un bel falò con tutto il superfluo -due fornelletti?!? Il caricabatterie?!? Mi chiedo ancora perchè- è forte.
I minuti scorrono veloci, e sappiamo che per avere un pasto caldo, ma più che altro al caldo, dobbiamo arrivare entro le sette, e allora decidiamo per quella che dovrebbe essere una scorciatoia, un sentiero poco segnalato prima di raggiungere il colle, che ad intuito dovrebbe portarci direttamente al Lac Rond, tagliando il giro intorno alla collina.
A conti fatti, l’intuizione era giusta, arriviamo in effetti direttamente al rifugio…solo, però, diversi metri più in alto, giusto in cima alla pietraia che ripara il pianoro su cui si trova il rifugio. Veniamo accolti da sguardi incuriositi e non molto di approvazione da parte degli altri ospiti, che ci guardano tentare un’improbabile discesa dalla pietraia.
Ora siamo definitivamente distrutti, ma in perfetto orario per la cena. Ci godiamo la zuppa e la salsiccia, ma dobbiamo subito correre a montare la tenda. Il tempo di mangiare ed è subito buio, e come se non bastasse le nuvole sono salite veloci da fondo valle ed ora ci troviamo immersi in una nebbia umida. Montiamo veloci la tenda poco lontano dal lago, sull’unico spiazzo disponibile, e con le ultime gocce di calore accumulate mangiando, ci fiondiamo a dormire. Sono da poco passate le nove, ma il tempo di addormentarsi è di appena qualche secondo. I libri messi nello zaino per passare la serata si rivelano una parte di quel peso inutile che ci siamo portati dietro.
Il risveglio, al contrario della buonanotte, è fenomenale. Due presunti corridori d’alta quota passano a passo pesante fuori dalla tenda, e dopo dieci ore di sonno è tempo di alzarci. Il massiccio dello Cheval Blanc ci guarda dall’alto mentre facciamo colazione, un bel tè caldo in riva al lago.
Non c’è fretta, la strada del ritorno non è così lunga e abbiamo tutto il giorno a disposizione. Tenda e sacchi a pelo hanno superato eccellentemente la notte in quota, e gli sbagli commessi a Punta dell’Aquila, che ci avevano fatto passare una lunga e fredda nottata, sono serviti da buon insegnamento. Non c’è modo migliore di imparare che sbattere il naso contro l’evidenza dei propri errori.
Ci godiamo la vista, assistendo ai preparativi della partenza di chi ha trovato posto al rifugio, e ai ragazzi che smontano il tutto. E’ stata, infatti, l’ultima notte di apertura: da oggi e fino alla prossima primavera niente più pasti caldi, il rifugio diventa un bivacco per tutto l’inverno.
Con tutta calma, le gambe ancora indolenzite per i tanti chilometri percorsi ieri, ci rimettiamo in marcia, decidendo di ripercorrere la strada che avevamo già fatto in occasione della nostra inaspettata visita quassù la scorsa settimana. L’idea di tornare al lago Peyron è velocemente dimenticata, la ripida salita per arrivarci ci fa desistere velocemente, e ci accontentiamo -si fa per dire- del sentiero del ritorno, tanto simile ai paesaggi de Il signore degli Anelli, e anche se sappiamo che è stato girato in Nuova Zelanda, qualche dubbio ancora ci viene viste le somiglianze.
L’ultima tappa durante la discesa è il lago dei girini -così l’abbiamo ribattezzato, inutile spiegarne il perché- da cui già una volta abbiamo scattato foto favolose, e che ha un suo fascino veramente particolare: la posizione, a strapiombo sulla valle e incorniciata dalle vette, è veramente speciale.
Ultimo spuntino, con quel poco che ci è rimasto -sì, la montagna mette fame, molta molta fame- e di nuovo sul sentiero verso le Grange.
L’ultima vera tappa è il nostro classico acquisto di formaggi e prodotti locali, che fanno difficoltà ad arrivare a casa. Ci godiamo un po’ di gorgonzola e una bella bibita fresca con i piedi a bagno nel fiume che scorre a fondo valle, e poi è veramente ora di andare. Il pranzo lo faremo a casa, comodamente seduti a tavola e con il divano ad aspettarci, ma questa avventura ci rimarrà in testa per molto tempo, nella speranza di ripeterla presto, da qualche altra parte, ma presto.
Chi più alto sale, più lontano vede; chi più lontano vede, più a lungo sogna.
Walter Bonatti
All’inizio ci siamo avvicinati, quasi per caso, andando a finire al Refuge du Thabor ed abbiamo scattato foto fantastiche sul sentiero del ritorno da questa prima avventura.
Ovviamente non poteva finire così. Insoddisfatti, appena una settimana dopo, abbiamo prima conquistato la vetta, ritrovandoci immersi in un silenzio surreale, poi di nuovo alla volta del rifugio, percorrendo la strada per il lago Peyron.
Insomma, ne abbiamo fatta parecchia di strada, eccola qui, riassunta nei dislivelli percorsi durante l’escursione di due giorni:
1 Giorno: dalle Grange di Valle stretta alla cima del Thabor
dalla cima del Thabor al Rifugio passando per il Lago Peyron e dormendo sulle sponde del Lac Rond (Refuge du Thabor)
2 Giorno: Dalle sponde del Lac Rond (Refuge du Thabor) alle Grange di Valle Stretta
Una bella escursione, forse non proprio alla portata di tutti, ma se viaggiate leggeri e senza fretta, piano piano si arriva a far tutto.
AP
Ah, il Thabor! E’ sempre una bella soddisfazione! Ci son stato più volte e quest’estate sono riuscito a portarci mio figlio di 10 anni, è rimasto incantato dal panorama e orgoglioso della ‘conquista’.
Bellissime foto, complimenti!
Ciao Michele… sono Raffaele e quest’estate porto 100 giovani in quella zona… in val di Susa e vorrei farli salire al Thabor… Una domanda: è fattibile oppure c’è bisogno di arrampicarsi con piccone e corda? L’anno scorso siamo saliti a Quinto alpini a 3100 metri tutti e cento… ti ringrazio
Ciao Michele… sono Raffaele e quest’estate porto 100 giovani in quella zona… in val di Susa e vorrei farli salire al Thabor… Una domanda: è fattibile oppure c’è bisogno di arrampicarsi con piccone e corda? L’anno scorso siamo saliti a Quinto alpini a 3100 metri tutti e cento… ti ringrazio
Ciao Raffaele, per salire ci vuole solo tanta buona volontà. Non ci sono tratti esposti.
Ciao che tenda avete ? che modello? Bella uscita complimenti…siete riusciti a vedere il tramonto dal rifugio Thabor?
Ciao Jonatan, quella è stata la nostra prima uscita, quindi eravamo molto disorganizzati.
Ora abbiamo una tenda della ferrino 4 stagione, la Pumori. Quando abbiamo questo trekking avevamo una delle tenda della decathlon. IL tramonto non me lo ricordo, perchè in quel momento stavamo cercando il rifugio 😀