Una notte lunga e tranquilla, calda grazie al bivacco isolato benissimo e con molti confort, comoda con tutti i cuscini e le coperte che si possono desiderare.
I primi raggi di sole ci svegliano, dritti attraverso la finestrella ghiacciata. Non è prestissimo, per fortuna non è estate con l’alba alle sei in punto, e decidiamo di alzarci per goderci in tutto lo splendore il sorgere del sole, con i suoi colori ed i suoi riflessi.
Fuori è ancora parecchio freddo, il ghiaccio notturno ancora ricopre tutto intorno a noi, porta compresa, ma ogni secondo di più i raggi cominciano a risvegliare tutto e scaldarci.
L’alba è un momento mozzafiato, in nessun’altra ora del giorno è possibile ritrovare le sfumature, i colori e la tranquillità di questi momenti in cui tutto si risveglia, si scalda e si attiva per una nuova giornata. E’ anche vero che quassù, in quanto a vita, c’è veramente poco ad eccezione di noi quattro, ma vedere la città che piano piano si colora, si attiva, le montagne che si illuminano e tutto esce dall’ombra, bhè, non è facile descriverlo.
Non tutti riescono a godersi questi momenti per l’ora, anche per noi non è una cosa da tutti i giorni, e forse è anche meglio così. Vuol dire che quelle poche volte in cui riusciamo a goderci i primi raggi di sole della giornata, saranno ricordi che rimangono a lungo.
Restiamo fuori ogni secondo possibile, mentre il té si scalda sul fornelletto all’interno. Uscendo e rientrando, si sente ancora l’odore forte di asparagi all’interno: abbiamo imparato un’altra lezione, mai cucinare asparagi in un bivacco di pochi metri quadrati, a meno che poi non si pensi di tener la porta spalancata e perdere quel poco di calore che c’è all’interno.
“Da quassù il mondo degli uomini altro non sembra che follia, grigiore racchiuso dentro se stesso. E pensare che lo si reputa vivo soltanto perché è caotico e rumoroso”
Walter Bonatti
Dopo aver assorbito tutta la vitamina D possibile, rientriamo per assorbire qualche caloria, di cui, vista la fatica fatta per arrivare qui ieri sera, abbiamo un gran bisogno. La colazione è classica, molto inglese: té e fette biscottate con miele e marmellata, contenuta ma sostanziosa.
Con la calma instillata da questo posto meraviglioso, ci vestiamo e ci prepariamo per una passeggiata alla scoperta delle vette a pochi passi da noi. I nostri due amici optano, invece, per una breve scoperta degli immediati dintorni, le gambe ancora parecchio indolenzite per la salita.
Subito ci avviciniamo alla parete innevata che porta alla vetta del Truc Peyrous, ma basta un’occhiata da vicino per capire che la scalata è assolutamente impraticabile, ricoperta di neve e ghiaccio. L’unica altra strada è, ad intuito, percorrere tutta la cresta, ma il giro è abbastanza lungo e le gambe, per quanto allenate, soffrono un po’ dalla lunga salita di ieri.
Optiamo per un breve giro verso i vecchi ruderi e la punta alle nostre spalle.
La pendenza è praticamente inesistente, non abbiamo neanche bisogno degli scarponcini visto che non c’è neve a terra se non in qualche sporadica conca, e quindi, comodi comodi, ci avviamo al primo dei due blocchi di ruderi.
Scopriamo che si tratta di una sorta di avamposto militare, il cui tetto e le prime stanze sono crollate, mentre il resto è ancora più o meno intatto. Con occhio inesperto, sembra essere anche relativamente recente, chissà come mai abbandonato.
Evitiamo di entrare visto il tetto mezzo crollato e di cui non abbiamo idea quale sia la situazione, anche se la tentazione è forte -ci affacciamo giusto ad alcune delle finestre, per scoprire che dentro è pieno di piccole stanzette, sembrerebbe proprio che fossero locali militari, totalmente svuotati- e continuiamo che il sentiero, chiarissimo, verso il rudere sulla cima.
Il secondo rudere è messo molto meglio del prima, sebbene la porta e gli infissi siano sfondati e bloccati. Doveva essere un ricovero, forse il precedente bivacco, perchè dentro non ha nulla se non una panca. Ma anche qui non riusciamo ad entrare, la porta bloccata dai detriti all’interno e le finestre chiuse.
Lo spettacolo, da questo lato, è totalmente differente: non ci sono paesini nella vallata, solo montagne, cime e vette a perdita d’occhio.
Una punta vicina, in particolare, attira la nostra attenzione. Si tratta di un costone a strapiombo sulla valle, che scopriamo chiamarsi Punta Galambra -provvidenziale cartello pochi metri prima.
“Continua ciò che hai cominciato e forse arriverai alla cima, o almeno arriverai in alto ad un punto che tu solo comprenderai non essere la cima”
Seneca
Da Punta Galambra la vista è indescrivibile: si può salire fino all’ultimo centimetro e, di qui, guardare sotto, lo strapiombo altissimo e poi, alzando gli occhi linee e linee di vette, innevate e non. C’è davvero da perderci ore, riuscire a riconoscere tutte le vette; di certo c’è solo lo Jafferau, la seconda al centro, leggermente sulla sinistra, con i suoi fortini in cima, e all’orizzonte, al centro, la Barre des Ecrins e più sulla destra la Meije, entrambi già ampiamente in territorio francese.
Sulla nostra destra, invece, non abbiamo proprio idea, né abbiamo una cartina abbastanza estesa per poterci capire qualcosa.
Rimarrà un mistero per questa volta, alla prossima salita ci organizzeremo meglio e scopriremo i nomi di ogni singola punta.
Torniamo indietro, al bivacco, dove i nostri amici hanno già sistemato quasi tutto, ed è ora per il classico autoscatto di gruppo. Ormai la temperatura è già decisamente alta e si sta veramente bene.
Guardando giù, da dove siamo saliti, scopriamo che la vallata non vuole saperne di vedere il sole, resta quasi del tutto in ombra a qualsiasi ora del giorno, almeno in questo periodo dell’anno. Questo un po’ ci consola, anche fossimo partiti prima, ieri, non avremmo comunque goduto del calore del sole sulla faccia.
Arieggiato il bivacco Sigot, che finalmente abbandona l’odore di asparagi, rimettiamo gli zaini in spalla e siamo pronti per scendere.
La strada è abbastanza lunga, le tempistiche sui cartelli un tantino vaghe. Superata la ripida discesa iniziale a tornanti e raggiunto il passo pietroso al di sotto, il sentiero si fa abbastanza semplice e non troppo impegnativo, anche se i chilometri in salita di ieri e gli zaini non rendono mai facile neanche il più semplice dei sentieri.
Superiamo senza troppi problemi il tratto più brutto, quello tra le rocce, brullo, e poco dopo aver attraversato il fiume ci addentriamo nuovamente nel bosco. La luce filtra poco, i pini rigogliosi nonostante sia autunno non permettono ai raggi di raggiungere il terreno, e ci godiamo le poche radure assolate.
Arrivati quasi a fondo valle, troviamo il ruscello ghiacciato che ci aveva dato qualche problema in salita, e con un po’ di fortuna ne usciamo indenni.
Infine, ritorniamo al nostro punto di partenza, il rifugio Levi Molinari, dopo aver attraversato l’ultima parte in piano del bosco che, non vedendo mai il sole, è ricoperta di una fitta brina bianca che rende il paesaggio decisamente magico.
Non eravamo ancora venuti in questa parte della Val di Susa, sebbene, almeno io, abbia passato gran parte della mia infanzia a pochi chilometri da qui, nel paese di Oulx.
Un altro magico angolo di Piemonte, a pochi passi da Torino, che non aspetta altro che essere scoperto!
AP
Bel raccontp, grazie! la seconda costruzione menzionata è quella che una volta si chiava ricovero Galambra. Era una vecchia costruzione militare che nei primi anni 80 venne “rimessa a posto” da volontari di Bardonechia (anche io -ragazzino all’epoca- avevo portato su un po’ di cemento :-)). Per alcuni anni venne usato come ricovero. La gita con salita da Bardonecchia, pernottamento al Galambra e discesa dal Lago delle Monache-Mariannina Levi fino a Salbertrand (ritorno in treno a Bardonecchia) era il “pezzo forte” del programma delle gite estive dell’Azienda Autonoma di Soggiorno di Bardonecchia. Bei ricordi.
Commento davvero interessante, grazie delle informazioni!