Oggi la sveglia suona prestissimo, talmente presto che fuori è ancora buio. Tempo di vestirci ed ecco che di fronte a noi i primi raggi di luce illuminano le nuvole di rosa e finiamo di preparare gli zaini già quasi pronti da ieri sera.
Alle 6.30 in punto siamo al molo, colazione fatta e zaino in spalla, siamo pronti a salpare!
Non c’è nessuno tranne noi e qualche aspirante pescatore al molo e dopo qualche minuto ecco che arriva il nostro capitano del Water Taxi. La barca sembra quasi uno dei mezzi d’assalto militare, con la prua che si abbassa per sbarchi veloci e, probabilmente, turbolenti.
Ci vengono fornite due sedie in plastica e si parte. Non abbiamo neanche il tempo di uscire dal porto che la prima lontra giocherellona ci aspetta per salutarci mentre se la spassa a pancia all’aria sgranocchiando cozze e gusci vari. Poi, appena fuori dal porto, si parte a mille verso la costa di fronte e non passa molto prima che un puffin – pulcinella di mare – ci sorpassi a velocità incredibile.
Arrivati sulla costa di fronte, a Halibut Cove, su consiglio del nostro capitano, ci facciamo lasciare poco lontano dalla partenza del sentiero, per evitare di venir bloccati dall’alta marea che sta salendo.
Salutiamo la barca e siamo completamente da soli, una sensazione a cui stiamo cominciando a fare l’abitudine in questa terra selvaggia. Prima di tutto facciamo una seconda veloce colazione, un panino e una mela – gli zaini pesano e ci aspetta una faticosa camminata su sabbia e sassi – poi ci incamminiamo verso l’inizio del sentiero, dove piantiamo la tenda in uno spiazzo non proprio in vista e nascondiamo il bear canister tra gli alberi – più al riparo dagli uomini che dagli orsi, retaggi da mentalità italiana purtroppo.
Svuotati gli zaini e lasciato solo il necessario per coprirsi, bere e mangiare nelle prossime ore, ci incamminiamo verso il ghiacciaio Grewingk, a ben 7 miglia di distanza da qui.
Il sentiero inizia in un bosco fitto ma vivibile, però non dura molto. Ben presto ci troviamo trasportati nella fitta giungla amazzonica, con piante e foglie enormi, alte ben più di noi che a tratti ci accecano e ci dividono. La paura di incontrare un orso da un momento all’altro è alta e continuiamo a chiacchierare e dire cavolate ad alta voce, nella speranza di farci sentire e non sorprendere amici pelosi e con artigli.
A poco più di metà sentiero, la vegetazione si dirada un pochino e di colpo ci ritroviamo di fronte un fiume rabbioso che ci taglia la strada, ma ecco che appare anche il nostro primo hand-tram, niente più di un cesto con una carrucola da tirare a mano con una corda. Siamo fortunati e troviamo il cesto dalla nostra parte, eccitati dalla nuova esperienza, saltiamo su con zaini e bastoncini e mettiamo in moto le braccia – che dopo tante camminate stavano cominciando ad annoiarsi.
Ma che fatica! A metà strada le braccia bruciano e le mani anche: ci riposiamo un momento e poi, spinta dopo spinta, ripartiamo in direzione dell’altra sponda. Rimettere i piedi a terra e tornare a camminare è una gioia, anche se rientrare nella giungla appiattisce subito l’umore.
Quando ormai le gambe sono stanche e soprattutto lo siamo noi di esser schiaffeggiati dalle frasche e presi a calci dai rami, ecco che la giungla lascia il posto alle rocce e ben presto saliamo su un promontorio parte della morena del ghiacciaio.
Lo spettacolo è mozzafiato: siamo a meno di 100 metri dalla lingua del ghiacciaio – di cui possiamo vedere la parte finale su verso le cime – che si tuffa nella laguna. Il ghiaccio è pieno di crepacci blu e azzurro intenso e se stiamo in silenzio possiamo sentire qualche scricchiolio.
Troviamo una roccia comoda e ci sediamo, finalmente. Tiriamo fuori gli snack – carotine, cioccolato, noccioline e due banane, bagnate da qualche sorso d’acqua, che comincia a scarseggiare – e ci rilassiamo, non proprio ansiosi di ributtarci nella giungla.
Poco dopo, mentre ci godiamo il silenzio, vediamo arrivare nella laguna un gruppetto di persone sui SUP che arrivano praticamente a contatto con il ghiacciaio: siamo un po’ invidiosi, anche se il nostro punto di vista è sicuramente più spettacolare – o almeno ce ne convinciamo – ma sapevamo fin dall’inizio di dover scegliere tra la notte fuori e la passeggiata facile fino al ghiacciaio, abbiamo scelto la prima, sicuramente più avventurosa.
Un sonnellino di 10 minuti e siamo pronti a ributtarci tra le frasche per quasi 4 ore, uniche interruzioni l’incontro con una famiglia di italiani che ha guidato da Whitehorse – il confine tra Canada e Alaska – a qui ed il faticosissimo hand tram, che questa volta decidiamo di fare uno per volta, usando tutta la forza di chi è a terra per tirare il minor peso. Non sappiamo se la decisione sia stata corretta, la fatica è stata comunque tantissima!
Dopo molte ore a piedi, arriviamo al nostro campo base in spiaggia: la tenda c’è, il bear canister pure, l’unica cosa che manca è l’acqua, ne abbiamo poca, un litro o poco più, e ci deve bastare per cena e fino a domani a pranzo.
Prendiamo acqua e cibo e troviamo un buon punto in spiaggia – non c’è assolutamente nessuno, tutti quelli che hanno firmato il diario del sentiero sono già ripartiti – dove accendiamo un piccolo fuoco e ci accomodiamo tra i tronchi sbianchiti dal sole e dal sale.
Ci prendiamo tutto il tempo di cui abbiamo bisogno per cucinare un sacchetto disidratato a testa e gustarcelo, ma finito quello abbiamo ancora fame e sete, ma ci rimane solo più 3/4 di bottiglia e domani ci aspetta una camminata di qualche ora, meglio non rischiare. Passiamo sulla seconda cena e anche su caffè, concedendoci la lattina di coca cola come dolce.
Finita la poco sostanziosa cena, restiamo un po’ a goderci i caldi raggi di sole sulla spiaggia, prima che la temperatura si abbassi e ci obblighi ad infilarci in tenda. Facciamo bene perché dopo poco arriva una lontra con le sue cozze e rimane parecchio tempo a far capolino tra le onde a riva, mentre la sentiamo chiaramente sgranocchiare le cozze.
Poi, con la pancia che brontola e il sole ancora alto, ci infiliamo in tenda visto che la temperatura si è abbassata e il vento si è alzato e ci addormentiamo praticamente subito, la giornata è stata lunga e faticosa.
Ci svegliamo dopo una notte agitata e poco sonno: tanti rumori fuori dalla tenda – è pieno di uccelli e animaletti vari – schiena e collo hanno patito la lunga camminata di ieri e il materassino non collabora più e si sgonfia a metà note. Il sole è già alto e ci aspettano diverse miglia a piedi prima di raggiungere il molo dove ci aspetterà la barca per tornare ad Homer. La colazione è sbrigativa e decisamente frugale, un sorso d’acqua e poco più, siamo sporchi e assetati.
Impacchettiamo la tenda e ci mettiamo in cammino sul Saddle Trail dove, tra 4 miglia, verremo raccolti dal water taxi. A differenza di ieri il sentiero è decisamente meglio, più ampio e con alti alberi che ci circondano. Gli zaini sono pesantissimi e fatichiamo abbastanza, ma alla fine arriviamo in vista della fantastica laguna di Halibut Cove dove aspettiamo che la barca arrivi a raccoglierci, sgranocchiando le ultime due noccioline e una busta di cibo liofilizzato.
Poi in lontananza vediamo una barca avvicinarsi, ma non è la nostra. Quella successiva sì invece e siamo davvero felici: in 45 minuti – dopo un altro puffin e qualche lontra – arriviamo a Homer, ma soprattutto alla macchina. In pochi minuti ci fiondiamo a riempire l’acqua e poi ci fermiamo ad un laghetto prima di tornare sulla terraferma, dove i pesci saltano fuori dall’acqua dove sbraniamo, finalmente, un bel pranzo.
Con la pancia piena e non più assetati, torniamo a Homer e cerchiamo una stazione di lavaggio, dove finalmente ci togliamo un po’ di sporco di dosso e diamo anche una bella lavata ai vestiti, accompagnando il tutto con un ottimo cafè mocha. Asciutti, puliti e profumati ci rimettiamo in macchina, direzione Seward, direzione nuove avventure.
Qui trovate il Diario di viaggio -> Alaska il grande viaggio
AP
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